to care and not to care (“Ash-Wednesday”, TS Eliot)
Nel giugno 2015 ho allestito la STANZA DI PREGHIERA in uno spazio che prima di essere MAAM era una delle celle frigorifere della ex fabbrica Fiorucci. L’ho scelto perché già conteneva elementi che entravano in attrito: l’impermeabilità data dalla sua originaria funzione e la strana presenza di guard rail che, al contrario, svolgono il loro compito in uno spazio complesso e contaminato.
Perciò la preghiera, in questo caso, si configura fisicamente e visivamente come un’azione di opposizione, non formula e rappresentazione di una religione che chiude e divide ma territorio aperto, “esperienza assai prossima ai modi di fare mondo propri dell’arte contemporanea” (Speroni), e il suo realizzarsi diventa dispositivo che rinnova la comprensione del nostro agire quotidiano, sfidando le contraddizioni accumulate nelle pieghe della relazionalità, dove il politico risiede nella scelta: “non c’è più tempo per stare a parlare di tutto, di qualsiasi cosa, bisogna parlare di quello che davvero conta. Cioè della religione. Che da divina si è fatta società” (Abruzzese).
Chiunque faccia un minimo d’esperienza di Metropoliz avverte l’imposizione non solo di reindirizzare i propri mezzi ma soprattutto di riconfigurare la propria presenza nel mondo. Perciò l’apertura dell’opera non risiede tanto nella dimensione formale, strutturale e metodologica quanto nel suo procedere nel tempo e nella carne dell’abitare, rinnovando esperienze originarie.
Per questo, la Stanza di Preghiera è stata parte integrante dell’azione – realizzata con Olimpia la mia Labrador nera di cinque anni – il cui titolo FEED “to care and not to care” (questa citazione da Eliot la devo a Emma Ercoli, che segue con passione il mio percorso di ricerca”), dichiara il tema complesso sul quale si basa: cos’è la condivisione, la relazione, la cura, la comunicazione, la rete…l’immagine?